Dal 1 marzo 2023, come noto, a seguito della definitiva approvazione del decreto legislativo n. 149 del 2022, di attuazione della legge delega n. 206 del 2021, ha debuttato la riforma “Cartabia” del processo civile. L’anticipazione del varo della riforma, originariamente prevista per il 30 giugno, è stata imposta dalla necessità del nostro Governo di lanciare un segnale di rassicurazione all’Unione Europea in ordine al reale raggiungimento degli obiettivi di efficienza ed ammodernamento della giustizia italiana, stabiliti come obiettivi primari dal piano nazionale di resilienza. La detta anticipazione ha scontentato tutti, operatori giuridici in testa; essa, infatti, determinerà la completa, almeno negli auspici del Legislatore, informatizzazione telematica del rito civile, scontrandosi, però, con l’inadeguatezza strutturale e l’atavica penuria di uomini e mezzi di molti degli uffici e delle cancellerie giudiziarie. L’Europa, però, come prosaicamente si dice, ha aperto i borsoni della propria scarsella, riversando sul nostro Paese un’enorme quantità di denaro, e ci impone di raggiungere gli obiettivi prefissati. E così, l’architettura del processo civile è stata mutata, riesumando gli echi lontani del dualismo che informava quel rito nella versione del 1865, in particolar modo quella del giudizio di primo grado, con l’affiancamento al giudizio di cognizione “formale” di un modello “semplificato”, destinato, almeno negli auspici, a divenire il modello statisticamente più rilevante. È stata, secondo la finalità acceleratoria che permea l’intera riforma, profondamente rivista la tematica delle impugnazioni, soprattutto in tema di ricorso per cassazione, con l’adozione di taluni istituti la cui tenuta costituzionale potrà essere valutata solo nel medio periodo e che notevoli dubbi hanno già ingenerato nella dottrina più attenta. È stata modificata, seppur in minor misura, anche la parte codicistica relativa al processo esecutivo ed ai procedimenti speciali; si è, finalmente, inteso attribuire ai giudici arbitri il potere cautelare. Un radicale cambio di passo, si potrebbe pensare, se non fosse, come i più avveduti studiosi abbiano avuto modo di segnalare, come questa sia l’ennesima riforma che si inserisce nella Babele del processo civile, inaugurata con la codificazione del 1942, mutata con la novella del 1950, per poi essere tendenzialmente inasprita a partire dalla riforma del 1990 e da quelle successive, poi susseguite, nell’arco temporale compreso tra il 2009 ed il 2016 per giungere, finalmente oggi, a quella in commento. Un maestro della nostra disciplina amava ripetere, in tono amaramente sarcastico, come “il diluvio delle leggi processuali, mal scritte e mal congegnate, non si sia ancora arrestato e pare, ulteriormente, proseguire”. Chiaro è che l’intento, neppur malcelato, dell’intera riforma sia quello di velocizzare l’iter della cognizione, armonizzandola agli standard imposti dall’Unione Europea, ma, anziché cercare il conseguimento del detto scopo, organizzando maggiori e necessarie dotazioni di uomini e mezzi utili all’impresa, il nostro legislatore ha preferito seguire la più comoda scorciatoia di un ulteriore, non necessario e deleterio, inasprimento del principio di eventualità, infarcendo l’intero iter processuale di una lunga teoria di decadenze, preclusioni, perentorietà, tutte ovviamente poste solo a carico delle parti e dei loro procuratori, rendendo, vieppiù, complicata quella tutela fondamentale dei diritti soggettivi alla cui tutela la nostra Costituzione aveva dedicato il rito processuale civile. La reale sensazione che la prima lettura del riformato codice di procedura infonde nello studioso è che il processo civile abbia cambiato pelle, mutando l’originaria propria natura: non più luogo di parità tra le parti ove si attua la volontà concreta della legge, come ci hanno insegnato i padri della nostra disciplina, ma, ben più pragmaticamente, una nuova visione burocratica del rito quale luogo ove è necessario trovare una accettabile soluzione al caso concreto e nel minor tempo possibile. Un luogo ove, per richiamare il Manzoni, con l’espansione geometrica dei meccanismi di ADR - mediazione in testa - il processo civile “non s’ha più da fare”, in ossequio all’imperante mercantilismo eurocentrico, e dove gli avvocati saranno, tosto, chiamati ad impersonare tanti Don Abbondio, costretti a barcamernarsi, qual “vasi di coccio”, tra le innumerevoli insidie processuali e le connesse – spropositate – sanzioni finanziarie. Questa pernciosa mutazione genetica, però, cela l’irrisolta ed irrisolvibile questione del “quid sit processus”: se, cioè, il processo - ed il mistero che da sempre lo permea, secondo il pensiero Sattiano - possa essere ridotto ad un mero meccanismo di celere definizione accettabile delle liti private “ne cives ad arma veniant”, abdicando, però, irrevocabilmente, in tal modo, alla sua originaria, bimillenaria, tradizione. È questo, in fondo, il dubbio atroce che affido al lettore. Solo l’esperienza dei prossimi anni ci dirà se la riforma che oggi commentiamo avrà ottenuto i risultati che si era proposta o se, ancora una volta, ci saremo affaticati a raccontare l’ultima goccia di “quel triste diluvio, mal scritto e peggio pensato”, ricominciando a spingere i massi del nostro studio nell’eterna ed, in definitiva, irrisolta pena imposta agli ignavi.